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C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico…


      Verrebbe da parafrasare il Pascoli, trovandosi al cospetto della bella pubblicazione curata da Simona Boni, edita da Mucchi Editore sotto l’ègida dell’Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Modena. Il corposo volume traccia infatti a linee nitide un ritratto della chitarra in Italia nella prima metà del Novecento, tema di cui ancor oggi così poco si parla e poco si sa: si è infatti ripetuta, nel microcosmo chitarristico dell’Italia del secondo Novecento, una situazione che già si era verificata assai simile nella Spagna di Tárrega e nella Vienna di Schubert e Giuliani (tanto per fare due esempi eclatanti).
      Sembra infatti che nel mondo dei chitarristi si attenda di tanto in tanto l’arrivo di un Messia che illumini un panorama più o meno oscuro e che nel contempo faccia piazza pulita di tutto ciò che fino a quel momento popolava l’immaginario degli appassionati e dei professionisti dello strumento. Negli anni ’50 del Novecento il Messia fu Andrés Segovia, la cui imponente figura artistica diede un deciso colpo di spugna a tutto ciò che prima la chitarra rappresentava – specie in Italia dove Segovia fu docente all’Accademia Chigiana di Siena – ed influenzò intere generazioni di cultori dello strumento; nella Spagna di fine Ottocento era stato Tárrega, con il suo innegabile appeal, a trasformare la chitarra da strumento eminentemente popolare a protagonista di indimenticabili concerti colti; e, ancora più in là, nel primo Ottocento a Vienna, fu la figura del pugliese Giuliani ad azzerare e reinventare una scuola chitarristica che faticosamente stava ancora cercando di affrancarsi da tradizioni liutistiche ben vive nel recente ricordo, specie nei paesi germanòfoni…
      Insomma, dal 1950 in poi in Italia l’unico punto di riferimento per chi si appassionava alla chitarra colta sarebbe stato Segovia e la sua Scuola: la generazione degli allievi di Segovia prolificò inoltre rapidamente, trasmettendo a successive ondate di allievi – fino ai nostri giorni - il verbo segoviano, ma nel contempo perpetuando una quasi totale ignoranza di ciò che era avvenuto nella prima metà del secolo in Italia. Chi aveva retto le sorti del nostro strumento in un periodo così difficile e pionieristico? Cosa accadeva negli ambienti accademici italiani nei confronti di uno strumento che aveva goduto cent’anni prima della stima di Franz Schubert, Nicolò Paganini e Karl Maria von Weber?
      Finalmente oggi ne sappiamo di più, e bisogna riconoscere grande merito a Simona Boni che, preceduta da alcune pubblicazioni e ricerche che hanno consentito in anni recenti di riappropriarci di una parte del repertorio di quell’epoca (penso alle antologie dell’editore Bèrben dedicate alle opere per chitarra di Mozzani, De Rogatis, Terzi ecc.), ha deciso – con determinazione tutt’affatto femminile e assumendosi il non facile ruolo di coordinatrice del progetto – di ‘ripartire’ dalla ‘sua’ Modena, città che per una serie di coincidenze (ma la casualità non è a volte l’altra faccia della necessità?) aveva visto confluire i germi di un autentico ‘movimento’ chitarristico, per approdare a un profilo cultural-geografico della chitarra del primo Novecento nelle sue sfaccettate realtà locali che ci restituisce la giusta dimensione pre-segovianain Italia.
      Tale movimento, e non è cosa da poco, avrebbe portato addirittura all’importante risultato di un riconoscimento accademico della chitarra come strumento degno di abitare in Conservatori e Scuole di Musica, mentre quelle realtà si svilupparono spesso in città di provincia, perché probabilmente negli ambienti artistici ‘che contavano’ delle grandi città di cultura - come Napoli, Roma o Milano - il mondo dei chitarristi restava sopraffatto dalle tendenze e dalle esigenze dell’establishment musicale ‘ufficiale’ che non lasciava granché spazio alle sei delicate corde della chitarra.
      Si parte ovviamente da Romolo Ferrari, genius loci modenese della chitarra italiana del primo Novecento: la sua figura di uomo di cultura e di attento osservatore del costume e delle tendenze musicali incentivò lo sviluppo di una concezione alta dello strumento (che da sempre ha peraltro avuto un coté popolare, sovente di eccellente qualità), anche per mezzo di pubblicazioni vivaci e ben informate. Non è un caso – e la foto di copertina ne è testimonianza – che Segovia stesso camminasse per le vie di Bologna a braccetto con lui, avendone riconosciuto con evidenza lo spessore culturale ed artistico.
      Dopo l’affascinante saggio biografico su Ferrari firmato dalla curatrice del volume (par di rivivere nella Modena degli anni Venti e Trenta!), si alternano altri contributi di valore sul chitarrista emiliano: il compositore Giovanni Indulti saggia le qualità di musicista del Ferrari e ne loda le caratteristiche, il chitarrista e musicologo marchigiano Massimo Agostinelli enumera le tante composizioni dei maestri dell’Ottocento raccolte e preservate da Ferrari ed ora custodite nel Fondo a lui intitolato.
      Fin qui l’omaggio doveroso al personaggio intorno al quale ruota il volume. Dopodiché il testo spicca il volo verso altri lidi ed altri temi che si intersecano in un abbagliante e sorprendente gioco di specchi: i detentori della cultura chitarristica del primo Novecento italiano, a dispetto di un mondo dove la facilità di comunicazione non era certo quella di oggi, vengono infatti a rivelarsi tutti collegati da una fine trama di relazioni culturali e sociali che valica distanze geografiche e ambientali. Gli scambi di informazioni, l’editoria, l’impegno di compositori come un Ettore Desderi (ce ne parla nel volume l’ottimo Piero Mioli), il fascino della ricerca sul repertorio liutistico (il leggendario Oscar Chilesotti da Bassano del Grappa era scomparso nel 1916), il confronto con gli ambienti coevi tedeschi (il volume ospita un saggio dell’eclettico prof. Andreas Stevens di Düsseldorf), la pubblicistica sulla chitarra rappresentata da bollettini e riviste, anche e sovente collegati alla capillare cultura delle società mandolinistiche del tempo: in una parola l’universo della chitarra, si rivela ben più ampio, fertile e vitale di quanto si potesse supporre da parte della nostra generazione, già post-segoviana.
      E nella terza parte del volume riprendono vita anche i protagonisti fisici di quella pagina ormai lontana, pressoché tutti ormai scomparsi (qualcuno recentemente), che lavorano in quel mezzo secolo con costanza, impegno e abnegazione; quasi un piccolo esercito di tedofori che recano la fiaccola della piccola e tenue chitarra perché il motto di Pierre De Coubertin, ad essa esteso, sia impresso ad imperitura memoria in un angolo tra le vicende della Grande Musica. Anche la ‘tenue chitarra’ infatti in quegli anni partecipava! E se in seguito è addirittura arrivata anche a vincere, una non piccola parte del merito va ascritta a quei personaggi come i Ferrari, i Murtula, i Lutzemberger, i Mozzani, i Palladino e i Taraffo (ma l’elenco completo necessita senz’altro della lettura del volume in oggetto) che seppero tenere viva e far progredire la storia del nostro gentile ed ammaliante strumento.
      Grazie, Simona.

Francesco Biraghi

Milano, 27 novembre 2009


 
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